D’Onufrio era legato da sincera amicizia a Giuseppe Montana, capo della Sezione Catturandi della Squadra Mobile di Palermo, e quando questi viene assassinato nel luglio del 1985, in lui scatta immediatamente qualcosa. Per l’amore della sua terra, per il futuro di suo figlio Giuseppe, Antonio non poteva tacere
È il 16 marzo 1989. Sono le nove meno un quarto e siamo nel quartiere di Ciaculli, a Palermo, centro nevralgico dell’espansione di Cosa nostra in quegli anni. Lungo la strada passa una Peugeot 405. All’interno c’è il barone Antonio D’ Onufrio. All’improvviso, da un angolo escono due o tre killer armati di pistole e mitragliatori leggeri. Una pioggia di fuoco investe il barone. Uno dei killers si avvicina a D’Onufrio e gli spara il colpo di grazia in bocca. Un’esecuzione simbolica. I boss di Ciaculli avevano saputo che il barone stava collaborando la Criminalpol.
La storia del delitto del barone Antonio D’Onufrio è una vicenda complicata, che s’innesta in un contesto storico-sociale altrettanto complesso e in cui molti hanno cercato vilmente di ritrarlo come un personaggio ambiguo che avrebbe addirittura tenuto summit mafiosi in casa propria. Bisognerà attendere però soltanto il 2000 perché l’ex capo della polizia, il dottor Manganelli, dichiari: “In questo patrimonio di possibili informazioni e informatori venne fuori da un sottoufficiale, che all’epoca collaborava con il dottore Montana, mi pare si chiami Belcamino, il nome di questo barone D’Onufrio, che era persona non coinvolta in fatti di mafia e, quindi, che nulla poteva raccontare su cose di mafia, perché non faceva parte del mondo criminale; però, era un amico del dottor Montana, era un tifoso delle Istituzioni, era vicino alla Polizia, avrebbe voluto fare chissà che cosa per cambiare il mondo in meglio, un idealista insomma”.
D’Onufrio era legato da sincera amicizia a Giuseppe Montana, capo della Sezione Catturandi della Squadra Mobile di Palermo, e quando questi viene assassinato nel luglio del 1985, in lui scatta immediatamente qualcosa. Per l’amore della sua terra, per il futuro di suo figlio Giuseppe, Antonio non poteva tacere. Il barone non esita infatti a collaborare con il Nucleo Centrale Anticrimine, interessato ad ottenere informazioni utili per la ricerca di possibili latitanti che potevano aver cercato rifugio proprio nella borgata di Ciaculli. E questo, purtroppo, gli costerà la vita. Seguiranno anni di depistaggi e disinformazione, in cui lo Stato ha avuto la propria considerevole fetta di colpevolezza.