Qualche giorno prima del suo quindicesimo compleanno, Giuseppe viene ucciso. Fu dapprima strangolato poi sciolto nell’acido. I racconti degli esecutori sono raccapriccianti, soprattutto quelli di Vincenzo Chiodo, tra gli esecutori materiali del terribile delitto
25 mesi di prigionia, 779 giorni. “La mafia non uccide i bambini” con questo trionfante quanto falso slogan, è stato dato senso di onore alla mafia e al suo operato. “Le donne e i bambini non si toccano!”. Sono oltre 100 i minorenni e quasi 160 le donne che la mafia ha ucciso, la maggior parte dei quali, prima del 1996. Giuseppe Di Matteo è un ragazzino che non ha ancora compiuto tredici anni. Suo padre, Santino Di Matteo, appartiene alla famiglia di Altofonte, molto vicina ai Corleonesi. Era soprannominato “Mezzanasca”. Fu arrestato e incarcerato a Rebibbia il 4 giugno del 1993. Su lui l’imputazione di dieci omicidi con aggravante mafiosa. Santino decide di collaborare e sue saranno le prime rivelazioni sulla strage di Capaci. Questa è la colpa di Giuseppe, essere figlio di suo padre. Nel pomeriggio del 23 novembre dello stesso anno, Giuseppe sparisce misteriosamente dal maneggio in cui si stava esercitando. I cavalli erano la sua grande passione e sognava di diventare un fantino professionista appena avesse avuto l’età per iscriversi alla federazione. Nel frattempo passava molto del suo tempo libero al maneggio di Piana degli Albanesi.
Su ordine di Giovanni Brusca, in quel momento boss di San Giuseppe Jato e latitante, un gruppo di mafiosi lo rapì. Tra questi c’era Gaspare Spatuzza, anche lui oggi collaboratore di giustizia, che racconta che il travestimento da poliziotti della DIA ingannò il piccolo Giuseppe, perché intravedeva la possibilità di incontrare il padre, sotto protezione in una località protetta. Dopo essere stato legato e rinchiuso in un furgone, fu consegnato ai suoi carcerieri. La notizia della scomparsa del bambino fece presto il giro di tutta la provincia e la famiglia si attivò per cercarlo fino a quando, il 1° dicembre, una busta arrivò a casa. Al suo interno un biglietto su cui c’era scritto “TAPPACI LA BOCCA” e due foto del piccolo Giuseppe mentre teneva in mano una copia di un quotidiano datato 29 novembre 1993, appena due giorni prima. Immediatamente fu chiaro che il rapimento era stato fatto per fermare il fiume di parole che usciva dalla bocca di Mezzanasca. Nei giorni successivi, Francesca Castellese, moglie di Di Matteo e madre di Giuseppe, denunciò la scomparsa del figlio. Il padre di Santino, Giuseppe Di Matteo, la sera stessa, ricevette un analogo messaggio che diceva “Il bambino lo abbiamo noi e tuo figlio non deve fare tragedie”. Durante il 1994 il piccolo Giuseppe fu spostato nelle masserie e negli edifici disabitati delle province di Trapani e Agrigento. L’ultimo periodo della sua vita, Giuseppe, lo trascorse in un casolare-bunker, nel mezzo del nulla delle campagne di San Giuseppe Jato. Qui rimase, sulla base delle ricostruzioni effettuate grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, per centottanta giorni. Nel lungo periodo di prigionia di Giuseppe, il padre, nonostante i ripetuti tentennamenti, non face mai un passo indietro e continuò a collaborare con la giustizia. Magro e debole, qualche giorno prima del suo quindicesimo compleanno, Giuseppe è ucciso. Giovanni Brusca, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo a causa delle dichiarazioni di Mezzanasca, si volle vendicare e ordinò la sua esecuzione. Fu dapprima strangolato poi sciolto nell’acido. I racconti degli esecutori sono raccapriccianti, soprattutto quelli di Vincenzo Chiodo, tra gli esecutori materiali del terribile delitto. Per il sequestro e l’omicidio di Giuseppe Di Matteo sono stati condannati all’ergastolo, oltre a Giovanni Brusca, altri cento mafiosi di rango, tra i quali Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano, Gaspare Spatuzza e Matteo Messina Denaro, ultimo grande latitante di Cosa Nostra e ritenuto essere l’attuale Capo dei Capi.
Gli esecutori materiali furono, oltre a Vincenzo Chiodo, Enzo Salvatore Brusca e Giuseppe Monticciolo. Il piccolo Giuseppe Di Matteo è stato ricordato in due film italiani. Il primo, “Tu ridi” è diretto dai fratelli Taviani. Il film, uscito nel 1998, nel secondo episodio, narra la storia di un bambino rapito per impedire che il padre mafioso possa collaborare con la giustizia. Rocco, il suo carceriere, interpretato da Lello Arena, ha, nei confronti del bambino, gesti di tenerezza e di affetto, dovuti al lungo tempo passato assieme. Anche Giovanni Brusca era affettuoso con Giuseppe, tanto da chiamarlo “u cagnuleddu”, ossia il cagnolino. Altro importante film è “Sicilian Ghost Story”, l’opera seconda di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Non si tratta della solita ricostruzione storica degli avvenimenti, ma di una trasposizione nel contemporaneo che rende il dramma intriso di poesia e melanconia al tempo stesso.
Roberto Greco per referencepost.it