Francesco Coco è la prima vittima eccellente, l’inizio dell’attacco al cuore dello Stato da parte delle Brigate Rosse che, per la prima volta, decidono di uccidere con premeditazione e calcolo

È l’8 giugno 1976. Sono le 13:30 e Francesco Coco ha terminato il suo lavoro. Esce dal suo ufficio, che si trova al dodicesimo piano del Palazzo di Giustizia di Genova per andare a casa. Lo accompagna, come al solito, Giovanni Saponara, bridagiere di P.S. addetto alla sua tutela. Francesco Coco s’infila nella Fiat 132 blu guidata da Antioco Deiana, un appuntato dei carabinieri. È un dattilografo-autista della procura. Il suo solito autista, l’agente penitenziario Stefano Agnesetta, il giorno prima aveva chiesto un permesso e Deiana è chiamato a sostituirlo. Sale anche Saponara. L’auto parte, seguita da un’Alfa Romeo Giulia con tre agenti di polizia a bordo. In meno di dieci minuti raggiungono la scalinata di Santa Brigida. Da lì, a piedi, Coco avrebbe raggiunto la sua abitazione. Coco e Saponara scendono dall’auto e si avviano verso la scalinata. Tutto sembra a posto e l’auto di scorta viene liberata. Deiana, dopo aver visto Coco e Saponara salire i gradoni, si muove in direzione di un vicolo opposto alla scalinata, dove attenderà Saponara. Coco e Saponara continuano a salire i gradoni della scalinata. 42 gradoni. Non si rendono conto che hanno le spalle scoperte e che tre uomini, li raggiungono e iniziano a sparare. Una pioggia di fuoco li investe. Nello stesso istante. Altri due uomini, armati di mitragliette Skorpion silenziate, raggiungono Deiana e lo uccidono a sangue freddo.

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Qualche ora dopo, i tre omicidi vengono rivendicati, a Savona, con un volantino dal sedicente gruppo “Nuovi partigiani”. In serata, una telefonata anonima afferma che il volantino è falso e attribuisce la paternità della strage alle Brigate Rosse. Nell’aula della Corte d’Assise di Torino, dove in quel momento si sta svolgendo il processo a carico di esponenti delle Brigate Rosse, uno degli imputati legge il messaggio di rivendicazione del triplice omicidio.

Francesco Coco è la prima vittima eccellente, il primo attacco al cuore dello stato da parte delle Brigate Rosse che, per la prima volta, decidono di uccidere con premeditazione e calcolo. È il procuratore Generale di Genova. Per Francesco Coco la legge è l’unico riferimento al quale l’uomo si possa confrontare, un dogma, quasi una religione alla quale affida il credo di tutta la sua vita. Nasce nel 1908 a Terralba, in provincia di Oristano. Si laurea in giurisprudenza e, in breve diventa Pretore e poi Sostituto Procuratore, a Nuoro e a Cagliari. In quegli anni si occupa, con la passione e l’intransigenza che lo contraddistinguerà in tutta la sua carriera, del banditismo sardo. Firmerà trenta ergastoli. Dal 1960 al 1972 è procuratore della Repubblica a Genova. In quegli anni segue le indagini riguardanti l’omicidio del procuratore della Repubblica Pietro Scaglione, ucciso a Palermo dalla mafia il 5 maggio 1971 assieme al suo autista Antonio Lo Russo. Una piccola parentesi a Cagliari lo allontana da Genova per due anni. Al suo ritorno scopre un clima diverso nei suoi confronti, sia dentro sia fuori dal Palazzo. In breve diventa un bersaglio pubblico, anche per le sue idee politiche di destre sebbene queste non avessero mai influenzato, e lo dimostrano gli atti dei suoi procedimenti, la sua capacità di analisi e giudizio. Il 18 aprile 1974 viene rapito Mario Sossi, suo collega e amico. È il punto di non ritorno della vita di Francesco Coco. Le Brigate Rosse chiedono un riscatto per la liberazione del magistrato genovese. La merce di scambio non è il denaro, ma la garanzia che la Corte d’Assise di Genova scarcererà gli otto detenuti del gruppo XXIIottobre, messi alla sbarra da Mario Sossi qualche anno prima. Dopo giorni di tensione la Corte accetta il ricatto delle Brigate Rosse, ma Coco non ci sta. Mario Sossi viene riconsegnato e sottoposto ad una visita medica. Le analisi verificheranno la presenza di due fratture. Questo è sufficiente per invalidare la “trattativa”, nella quale si pretendono “ottime condizioni fisiche” da parte dello Stato. Francesco Coco, allora, impugna la sentenza e ricorre in Cassazione. La sua richiesta è accolta. Mario Sossi è libero e i detenuti rimangono in carcere. Per i brigatisti da quel momento Coco è un morto che cammina.

L’identità dei responsabili effettivi del sanguinoso agguato rimane ancora oggi dubbia. Secondo il brigatista collaborante Patrizio Peci, che riferì presunte confidenze di Raffaele Fiore, peraltro non coinvolto direttamente, avrebbero partecipato tutti i principali clandestini dell’organizzazione: Mario Moretti, Rocco Micaletto, Lauro Azzolini e Franco Bonisoli. Egli inoltre coinvolse anche Giuliano Naria, che invece in sede giudiziaria è stato considerato estraneo alla vicenda, e Riccardo Dura, lo sconosciuto dirigente della colonna brigatista di Genova. Tuttavia non si sono raggiunte conferme a questa testimonianza indiretta; altre fonti ritengono che proprio Riccardo Dura, morto nell’irruzione di via Fracchia, fosse il capo del nucleo armato che uccise Coco e la scorta. Inoltre il brigatista Lauro Azzolini, uno dei responsabili logistici dell’organizzazione, nel suo racconto fornito a Giorgio Bocca, pur confermando la sua partecipazione ai preparativi, lascia capire che egli non era presente nel nucleo operativo il giorno dell’agguato. Ancora inesplorata la pista che porta in Sicilia, quella relativa al riciclaggio di denaro sporco della mafia nei Casinò del nord Italia, una delle ultime indagini di cui si stava occupando Francesco Coco. Nel suo rapporto datato 22 agosto 1977, Giuseppe Peri, vicequestore di Trapani, mette in relazione le morti del dottor Pietro Scaglione, ucciso dalla mafia il 5 maggio 1971, quella del dottor Ignazio Alcamo, presidente del Tribunale di Palermo morto il 5 maggio 1972 durante il disastro aereo di Montagna Longa e quella del dottor Francesco Coco, inserendole in un ben più ampio contesto di legami tra interessi della criminalità organizzata, dell’eversione di destra e di poteri politici.

Roberto Greco per referencepost.it