Che strano scrittore, Paolo Codazzi, sempre intento ad aprire sentieri mai netti o di confine – per esempio, tra la storia più documentata e la fantasia più surreale – tessitore di una lingua ricca, tornita e articolata, studioso infaticabile di tempi e geografie simultanee e di barocchi labirinti. In un romanzo che non è solo un richiamo moderno all’amor cortese fatto di contemplazioni e desideri da lontano, ma anche un intreccio per gli amanti del dialogo tra passato e presente e della complessità degli incastri e delle situazioni.
Orientiamo, dunque, i passi con la giusta calma attraverso questo avvincente Specchio armeno (Arkadia editore, pagg. 190). Il pittore-copista Cosimo Armagnati riceve la commissione di riprodurre un ritratto di donna conservato nella Galleria di Palermo. Per straordinaria coincidenza, questa tela rappresenta per lui il punto di riferimento di tutti i suoi pensieri amorosi e rappresenta l’obiettivo di una lunga ricerca, tutta astratta e interiore, dell’amore assoluto e irraggiungibile. Il quadro si rivela il punto di convergenza di diversi destini, anche lontanissimi nel tempo, che portano Cosimo ad avvilupparsi in una intricata tela di riferimenti storici che hanno a che fare con la pratica della stregoneria e con l’operato della Santa Inquisizione in Sicilia. Non a caso, tre sono le piste che fanno capo a Palermo e alla riproduzione del quadro: geograficamente partono da Firenze, dove Cosimo vive e lavora; un’altra dalla base delle Alpi, dove sono i natali del pittore che dipinse l’originale ritratto di Beatrice Gurrieri, commissionato dal fidanzato di lei, ma occasione per il fulmineo innamoramento della donna nei confronti dell’artista venuto dal Nord; infine dalla Sicilia stessa, che vede coinvolta anche la famiglia omonima del sovrintendente al museo, Vella, dal quale discendeva il promesso sposo di Beatrice, Nicola.
Fatto sta che a rendere più affascinante la scrittura di Codazzi interviene il gioco delle omonimie attraverso cui i protagonisti nel presente del romanzo ritrovano, come in una sorta di dispettoso specchio, una controfigura nel passato lontano che li precede e in qualche modo li determina. I loro destini convergono nella storia del quadro e nell’identificazione del misterioso “Maestro dei papiri” che lo aveva realizzato. Inoltre, sono annodati da due volumi che passano significativamente di mano in mano: un antico trattato di botanica, sconfinante nel manuale di pratiche magiche, e un saggio sull’Inquisizione di Vella, in cui si ricostruisce anche la vicenda di Beatrice e delle persecuzioni dell’Inquisizione ai danni di presunte fattucchiere. Magie, sconvolgimenti meteorologici, perturbazioni della mente che spingono tutti al momento topico del romanzo, quando Cosimo, all’opera nella riproduzione del dipinto, vede la Beatrice ritratta farsi persona in carne e ossa davanti ai suoi occhi sbalorditi. Cosa accadrà? Come in un ultimo estremo gioco tra lo scrittore e il suo lettore, tra chi ha raccontato e chi ha ascoltato, Paolo Codazzi sembra dirci che il frutto più dolce della sua storia lo gusterà, invece, chi ha capito. Forse che la verità sta in uno specchio mai così preciso, o in un residuo ineliminabile di realtà al fondo di ogni finzione.