Quel 29 luglio 1983, Cosa nostra utilizza un’autobomba per uccidere un magistrato. Sarà la prima. L’esplosione sarà anche la prima in assoluto a essere radiocomandata. E l’autobomba sarà una Fiat 126
Mi diede un bacio sulla fronte – me lo dava anche da sposata – poi sorrise, si girò e uscì dal portone. Insisteva per salutarmi dentro, nella penombra dell’androne, da una parte le scale che si facevano largo tra i muri e dall’altra l’affaccio di Stefano, il portiere. Temeva che, se fossimo usciti insieme, chi voleva colpirlo ferisse anche me. O uccidesse anche me. O uno dei miei fratelli. O nostra madre. Come tutte le altre mattine, mi fermai qualche secondo per vedere la sua schiena diritta, la testa grande, la borsa del lavoro, dalla quale non si separava mai, immergersi nella luce di Palermo. Ora mi si prenderà in giro: un magistrato, di una certa età, dire cose “da bambina”… Ma per me la luce è sempre stata un regalo di papà. Lui aveva questa abitudine: la mattina portava il caffè a tutti quanti. Si alzava alle cinque, cinque e mezzo, faceva un primo caffè per sé, poi si metteva a lavorare. Le poche volte che mi sono svegliata all’alba, me lo ricordo nello studio, chino sul suo tavolo, con la testa negli anni via via più pesante, gli occhi più preoccupati, intento a scrivere pagine e pagine di sentenze. Dopo un paio d’ore si preparava e, nel frattempo, faceva un secondo caffè, apparecchiava un vassoio con le tazzine e veniva a svegliarci. Quando eravamo piccoli, a noi bambini ne metteva solo un cucchiaino nel latte, per farci sentire più grandi. Io ero in camera con mia sorella e avevo il letto accanto al balcone. Lui arrivava, alzava la serranda, sentivo il suo vocione dire “Buongiorno”, aprivo gli occhi e per prima cosa vedevo il cielo azzurro di Palermo. E questo cielo per me era un suo regalo, il modo più bello di iniziare la giornata. Due giorni dopo è successo. Erano le 8.05 del 29 luglio 1983. Un momento qualsiasi di trent’anni fa è diventato quello in cui il dolore si è annidato dentro di me. Nel tempo ha cambiato forma – si è allargato, è sprofondato, si è nascosto, talvolta è esploso – ma non ha mai lasciato la cuccia che ha costruito allora. Non se ne è mai più andato. Io ero a Caltanissetta, lungo il tragitto tra casa e il tribunale. La mamma era a Trapani, commissario agli esami di maturità. Papà ha preparato il caffè, come al solito, l’ ha portato a Elvira e Giovanni, poi è sceso. I miei fratelli hanno sentito tutto: il suo ultimo «Buongiorno», i passi sul solito percorso studio-cucina-ingresso, la porta di casa chiudersi, la 126 verde imbottita di tritolo esplodere, i vetri di ogni finestra nel giro di 400 metri saltare in aria, l’ albero davanti a casa polverizzarsi, le lamiere volare e poi ricadere a terra pesanti. Hanno capito subito e sono corsi per la strada, in pigiama. Uno strazio che non si può immaginare. L’hanno cercato tra i corpi delle vittime e l’hanno visto: il nostro grande coraggioso padre, che ci insegnava ogni giorno come si fa a non avere paura, barbaramente assassinato da una manciata dei 162 mafiosi che stava mandando alla sbarra. Io ero appena uscita di casa, con Manlio. Partivamo insieme e passavamo prima al suo studio, contiguo alla casa dei suoi genitori, poi andavo in pretura. In macchina non accendemmo la radio, come facevamo di solito, o forse l’abbiamo accesa pochi secondi dopo la notizia. Quando siamo arrivati mia suocera era terrea, mi ha guardato in modo strano, ma suo marito era malato, ho lasciato correre. Dopo pochi minuti hanno chiamato dalla questura di Caltanissetta, ha risposto mio marito. L’ho visto cambiare faccia, impallidire, il volto contrarsi e dire: “No, lo zio Rocco no… “. Ogni tanto lo chiamava così, papà, e ho capito. Tra Caltanissetta e Palermo c’è almeno un’ora di strada. Ricordo il vuoto e nulla più, la sensazione di precipitare dentro di me all’infinito, oltre una porta che avevo tenuto intenzionalmente chiusa – che mio padre mi aveva fatto tenere chiusa – e dietro la quale non sapevo cosa si celasse. Non so se c’era il sole, se faceva caldo; come ero vestita l’ ho scoperto rivedendo le fotografie del funerale, il giorno dopo. So che volevo andare da lui e mi portarono direttamente all’obitorio, perché avevano spostato i corpi, e lì ho potuto vederlo un attimo. Poi sono andata a casa, dai miei fratelli, in quello scenario di devastazione. Mamma è stata avvisata da Nicola, suo cugino, che papà era rimasto ferito in un attentato. Gli uomini della volante l’hanno prelevata a scuola. Pensava gli avessero sparato, come a Cesare Terranova, e che la stessero portando all’ospedale. I miei fratelli erano sotto choc. Ammutoliti, gli occhi improvvisamente vecchi sui volti ventenni. Via Pipitone Federico era stata fino a quel momento una strada tranquilla di un quartiere residenziale. Palazzi anni Settanta, alcuni bianchi, altri giallini, tanti balconi con qualche pianta, piccoli negozi, alberi che costeggiavano i marciapiedi. L’albero davanti a casa nostra, al numero 59, è saltato in aria. A distanza di tempo l’hanno ripiantato e per anni è stato più piccolo rispetto agli altri. Anche noi lo siamo stati, e lo siamo ancora. Come monchi. Siamo cresciuti, abbiamo affrontato ciascuno il proprio dolore, la propria vita, le proprie sfide. Ma in qualche modo quel momento ci ha cristallizzato così: mamma per sempre madre e moglie, noi tre per sempre figli ed io, anche, sorella maggiore. Ero già magistrato, allora, e lo ero diventata con gioia e determinazione, sentendomi, come mio padre, profondamente giudice. Avevo scelto un percorso diverso dal suo, che mi assomigliava e mi corrispondeva, e l’avevo fatto con la sicurezza, la libertà e l’indipendenza di pensiero che lui mi aveva insegnato, forte della convinzione che bisogna “ragionare con la propria testa”. Qualche volta avevo persino avvertito una punta di fastidio sentendomi presentare a qualcuno come “la figlia di Rocco”: ero anche altro ed ero ansiosa di raccontarlo al mondo.
Tratto da “Com’è lieve il tuo bacio sulla fronte” di Caterina Chinnici – ed. Mondadori