Nella notte del 16 giugno 1988, Andrea Pazienza muore improvvisamente. Pochi giorni dopo la sua scomparsa, si apre a Peschici la prima mostra che avrebbe dovuto tenere insieme al padre Enrico
Raccontare le vicende su “Come Paz riuscì̀ a evitare il servizio militare” in qualche modo mi catapulta nel mondo delle nuvolette, quelle che nei fumetti racchiudono le parole, ma in questa storia nelle nuvolette c’eravamo anche noi…
Da circa cinque anni Paz cercava di eludere gli obblighi militari sostenendo strategicamente gli esami all’università̀ e ottenendo continui rinvii; ma prima o poi le scappatoie finiscono. Andrea giudicava impossibile soddisfare quell’obbligo, una grossa grana anche perché́ era destinato ai Granatieri di Sardegna… e tale condizione gli provocava ansia, insonnia, pessimismo e comportamenti incomprensibili. Decise pertanto di passare per pazzo: Paz doveva essere Paz ma doveva trasformare la sua follia, vestire cioè̀ i panni del folle “normale”, da manuale. Recuperò un vecchio enorme cappottone “bulgaro”, color cachettico, bottoni mancanti e sdruciture, indossato come chi si sente fuggiasco dal mondo. I pantaloni, a zumpafuosso, richiamavano il peggio delle discromie col cappotto e lasciavano intravedere calzini in evidente stato di usura che spuntavano da vecchie polacchine, semislacciate e sull’orlo dell’abisso. Ma il capolavoro del Paz-trasformismo era la faccia: la barba malfatta, di circa quattro-cinque giorni, evidenziava clamorose asimmetrie nella ricrescita. Opportuni eccessi ben distribuiti nelle settimane precedenti offrivano una sfumatura malaticcia (occhiaie, sguardo spento eccetera) utile in quella occasione; e poi un tocco finale a sorpresa che vale la pena raccontare. Per essere puntuali la mattina alla convocazione al Celio avevamo deciso di andare a Roma il giorno prima e di svegliarci in tempo per non “farli maldisporre”. Paz chiedeva: e se mi fanno questa domanda? E se mi scappa da ridere? O se mi metto a piangere? Che dici, se all’improvviso mi metto a urlare? Dove devo tenere le mani? Che ne pensi se, come ultima risorsa, me ne scappo? Magari, se siamo a piano terra, dalla finestra? Potrei anche alzarmi all’improvviso e dare una testata nel muro, concordi? Le domande di Andrea, mano a mano che si avvicinava il giorno fatidico, diventavano sempre più̀ incalzanti e contorte. Il suo terrore era di trovarsi spalle al muro, e prefigurava quella tragica evenienza come potrebbe solo un condannato alla pena capitale. In quel caso, concordammo, il mutismo non avrebbe potuto comprometterci; è una modalità̀ descritta dalla nosografia psichiatrica come “mutacismo”, e quindi avrebbe rinforzato la suggestione che volevamo indurre nello psichiatra colonnello. In subordine Paz teorizzò che uno sguardo perso, la cui parallasse sfiorasse l’asse ottico dell’interlocutore senza incontrarlo, avrebbe solleticato lo psichiatra, nonché́ colonnello, a sfrenesiare con le interpretazioni: fidavamo sull’autostima del diagnosta. Era anche prevista una timida lacrimuccia, meglio se sgorgante da un occhio solo (alcuni pazienti che piangono monocularmente m’ispirano la convinzione di squilibrio mentale e idrico). Dunque siamo a Roma, al giorno fatidico, e questo fu il tocco finale: al risveglio, come abitudine e necessità comune, mi fiondai nel bagno per espletare e vidi Andrea nella vasca, immerso in un mare di borotalco. Paz con tono convinto, scandendo le sillabe, mi mise al corrente di quell’ultima pennellata: voleva apparire come uno che fugge la luce, il sole, l’aria: era il colpo di “talco” del fuoriclasse. Dopo aver mugugnato che quello era l’eccesso che smaschera lo sprovveduto e che rappresentare la pazzia è una cosa seria, perentoriamente intimai: tu fai il pazzo, io lo psichiatra e io so… Non sentendolo più̀ controbattere, mentre ero intento a sciacquarmi la faccia per svegliarmi del tutto, certo di essere stato convincente mi girai per capire se si era convinto; invece mi aveva già̀ preso in contropiede: lo vidi mettere subito in pratica il piano B che doveva servire per affrontare l’imprevisto e l’imprevisto dell’imprevisto. Era sommerso dal borotalco, mutacico, con lo sguardo perso la cui parallasse sfiorava l’asse ottico dell’interlocutore (io) senza incontrarlo, perfezionato da una timida lacrimuccia sgorgante da un occhio solo: riconobbi che il tocco marmoreo conferiva alla sua persona un’aura di severa pazzia. Per il mio travestimento optò per un abito residuale, la camicia e la cravatta completavano l’orrido quadro, le scarpe erano state cromatinizzate il giorno prima e la borsa da medico conferiva al tutto un’inquietante immagine serio-professionale. Andrea mi aveva suggerito anche altre forme di travestimento: prima da psichiatra alternativo (maglione abbondante, giubbotto tipo Resina, pantalone di velluto e scarpe stravaganti); poi da archetipo dello studioso (occhiali spessi, qualche trascuratezza, nessuna ricercatezza). In ogni caso anche io avevo il mio asso nella manica, altro che borotalco!: mi ero portato dietro una documentazione inoppugnabile circa la diagnosi di Paz. Andrea aveva scelto alcune sue pubblicazioni che avevo messo in borsa; speravo non si dovesse arrivare a tanto per comprovare la diagnosi che cercavamo di ottenere; era pericoloso esporre un prodotto che avrebbe potuto far sorgere a chiunque, non solo a uno psichiatra, la ovvia contestazione: «Ma scusa i disegni mostrano che il Paz. (in questo caso Paz. sta per paziente) è inserito nel mondo, ben orientato nel tempo e nello spazio, non ha alterazioni ideative né fenomeni produttivi eccetera, eccetera…». Ma avevamo la risposta anche a questo. Quando alzammo gli occhi al Celio comprendemmo che dovevamo rimanere fedeli al copione: la sua imponenza per effetto metonimico ci spinse ancor più nel mondo delle “nuvolette”, nei nostri ruoli. Parlavamo a voce bassa in tono non confidenziale – Andrea vedeva ovunque spie dell’esercito nemico o delatori – però, ogni tanto, mostravo gesti di affetto: uno psichiatra paternalistico appare autentico e umano. Entrando nel locale nel quale i visitandi indossavano il pigiama dell’esercito, incrociammo gli occhi di una monaca che guardava verso di noi con insistenza, senza parallasse eccetera… Era piccola ma ieraticamente immensa e lo sguardo, dolce e senza deflessioni, denotava un piglio decisionista che sembrava sostenuto dal sovrannaturale. In ogni caso era meglio non fidarsi e così concordammo con un’occhiata che bisognava conquistarla alla causa, fidando nella pietà che spinge le anime pie a consacrare la loro vita all’eternità̀. Andrea nel cambiarsi si girò in modo da mostrare in tutta evidenza la cicatrice che aveva sulla schiena, e la Madre immediatamente la notò. Mi si avvicinò curando di assumere distanza e postura tali da non farsi notare da Paz e comunicarmi la sua intima partecipazione: fronte corrugata, un amaro sfumatissimo sorriso e un leggero infittirsi dell’ammiccamento oculare. Si avvicinò guardinga, con la tipica posa misericordiosa che contraddistingue larga parte del corpo ecclesiale: capo lievemente reclinato verso un lato; mani giunte all’altezza del precordio e sguardo nistagmatico, cioè̀ con periodiche scossette verso un lato (in quella circostanza il movimento oculare l’aiutava a guardare Paz senza essere vista). Sempre alternando un’occhiata a me e una al pigiamando, mi sussurrò: «Ma cosa è successo, come mai quella cicatrice?». Trattenni il respiro, come si fa quando bisogna dire nostro malgrado qualcosa di imbarazzante e per sottolineare quanto mi costasse affrontare quell’argomento. Andrea per fortuna mi suggerì̀ cosa fare: profittando di un attimo di disattenzione della suora, fece furtivamente il gesto della pugnalata e con il labiale: bambino, pedofilo, portone… Così iniziai il racconto: dipinsi Andrea come un ragazzo sensibile che assumeva spesso i panni del paladino dei deboli, e che proprio questa sua propensione era all’origine di tutti i guai, soprattutto della patologia psichiatrica sopravvenuta. Dunque, raccontai, Andrea si era trovato a passare davanti a un portone semiaperto e aveva notato un anziano signore che cercava di circuire un bambino men che decenne. Al vedere questa scena Andrea, sconvolto dall’assistere a tali turpi tentativi e per proteggere l’anima innocente, senza esitazione si era fiondato nell’androne. La sua generosità̀ – mi capisce, Madre – proseguii, lo ha spinto a intervenire; ma purtroppo il vecchio era armato di coltello e gli sferrò un terribile fendente alla schiena. La suora nascondeva sempre più la faccia tra le mani, come per non vedere le immagini violente che le mie parole le evocavano e mostrava anche tutto il dolore che provava. Quando riferii del terribile fendente addirittura ebbi l’impressione, dal suo sussulto e dalla sua esclamazione di dolore, che anche lei in quel preciso istante stesse avendo un colpo alla schiena. Da quel momento la vita dello sventurato ragazzo, conclusi, era stata funestata da sofferenze che lo avevano condotto verso un’ormai irreversibile patologia psichiatrica. La Madre mi invitò a stargli vicino e a prendermene cura e io, rivendicando implicitamente il ruolo professionale, le risposi che potevo contribuire alla sua salute con i mezzi della scienza, ma certo non avrei potuto risolvere i suoi obblighi esistenziali, – sottolineai la parola “obblighi” – sperando lei cogliesse la connessione con la parola “militare”. Lo psichiatra colonnello era un uomo corpulento e calvo, con un evidente spregio per il mondo, come per la copiosa coltre di grasso che subissava i pochi residui capelli sulle tempie. Aveva la divisa ma sopra indossava un camice frettolosamente infilato tanto da aver fatto risalire fino al gomito una manica della giacca militare e da lasciare in evidenza un imbarazzante avambraccio grassoccio, peloso e nobilitato da un orrido orologio finto oro e cinturino metallico. La nuca fuoriusciva dal bisunto colletto della camicia, bisunzione sostenuta da una copiosa sudorazione, nonostante non facesse caldo: dalle tempie si biforcava un rivolo che circumnavigava l’orecchio e colava verso le gote pendule; un altro esitava sul collo da bisonte. Mi colpirono le sue dita a salsicciotto che, mentre stavamo entrando, avevano appena finito di accantonare con finta noncuranza un giornale aperto sulle pagine sportive. Alzò lo sguardo da presbite sopra gli occhialini stretti e ci regalò un’occhiata vuota, assente, inespressiva. Come ci aspettavamo, s’immerse subito nelle carte che si riferivano al giovane Pazienza Andrea, nato a… il… eccetera… Lesse o finse di leggere vagando con gli occhi in su e giù, a destra e a sinistra della documentazione, con uno sguardo che permaneva ostinatamente vacuo. Finalmente alzò, si fa per dire, le pupille su di noi, osservando in silenzio Paz cerebralmente defilato che badava con cura a dirigere la sua ostinata attenzione verso un punto vago dell’universo al di là di quella stanza, del Celio, del mondo. Poi si rivolse a me, per parlare da collega a collega, immagino. Gli riraccontai la storia già̀ riferita alla suora usando una terminologia più̀ psichiatrica: parlai del vecchio pedofilo, del discontrollo degli impulsi di Andrea e del periodo successivo al trauma nel quale erano affiorati i sintomi. Gli enumerai le evidenze cliniche che mi avevano indotto, in qualità̀ di suo medico curante, a consigliargli un periodo di ricovero nella clinica neurologica presso la quale all’epoca prestavo servizio. Nel dire questo tirai fuori la cartella clinica, opportunamente compilata sulle prove della follia di Andrea, con esami, test psicologici, colloqui clinici eccetera: la consulenza psichiatrica infatti confermava la presenza di diffidenza, introversione, tristezza e pensieri di morte, deliri, angosce, e concludeva per una diagnosi di psicosi. Lo psichiatra colonnello guardò con la consueta modalità̀ la cartella; ma sembrava galleggiare in un’altra galassia. Finse di dover scrivere su alcuni moduli dove c’era il nome di Andrea, quindi erano carte ufficiali, forse il congedo definitivo così tanto ambito o, malauguratamente, il parere favorevole all’arruolamento. Poi si rivolse ad Andrea; ma Andrea eseguì alla perfezione lo sguardo e il mutacismo, come concordato. Decisi di giocarmi la carta finale: tirai fuori dalla borsa i fogli con le tre storie scelte per l’occasione e, con l’aria di chi mette in campo una evidence-based-psychiatry, li feci atterrare su quel mare di carte che occupavano la sua scrivania. Fu sorpreso, ma finse indifferenza. Fui pertanto costretto a imporgli il cartaceo invitandolo a dare uno sguardo a quelle produzioni artistiche che portavano impresse le stimmate inconfutabili, dissi proprio così, di un evidente disturbo psicotico. Seguirono attimi di sospensione poco decifrabili: fino a quel punto non avevamo ancora capito cosa avesse deciso; ma d’improvviso si aprì la porta ed entrò la suora che per noi diventò subito l’angelo del Celio. Già̀ dal momento in cui il suo viso aveva fatto capolino dalla porta, che aveva aperto senza bussare – il che testimoniava una posizione di privilegio (non si entra nella stanza del colonnello medico senza bussare… ma lei poteva) – cogliemmo la cosa con euforia: di certo era lì per noi. Bisbigliò poche parole all’umido orecchio del colonnello, pochissime, decisive; io ne colsi solo alcuni frammenti e qualche isolato vocabolo tipo: pedofilo, sensibilità̀, coltellaccio (però mai avevo usato quel dispregiativo, era la prova che anche lei voleva sortire un preciso effetto nel colonnello, e sapeva come fare). Geniale! Lo psichiatra colonnello rientrò dalla galassia in cui si era rifugiato, pulì̀ i vetri degli occhiali per guadagnare tempo, ma comunque erano quasi completamente appannati, poi prese le tavole di Paz e si mise a guardarle come si guardano le lastre delle radiografie, fingendo di scorgere qualcosa, e intanto annuiva. Dando la sensazione di affrontare una fatica sovrumana e però, nello stesso tempo, cercando di tranquillizzare la suora, girò gli occhi – si fa per dire – verso di lei, e indicava col dito grassoccio ora questo ora quell’altro particolare dei disegni di Paz. Come se si fosse trovato davanti a un Test di Rorschach, quello delle macchie, e ne desumesse certezze diagnostiche con un certo orgoglio professionale. Fu così che finì questa “sturiellett”, come a volte le chiamava Andrea, da lui stesso scritta, sceneggiata e interpretata. Uscendo dal Celio per eccesso di prudenza contenemmo l’entusiasmo, ma svoltato l’angolo iniziammo a saltare di gioia. Paz lo ripeteva spesso: questa è la storia più bella e non solo l’ho disegnata; questa volta l’ho vissuta proprio io e non Zanardi! Fu così che, come nel finale di Perché Pippo sembra uno sballato o di Le straordinarie avventure di Pentothal, apparentemente senza capo né coda, Paz riuscì̀ a “disegnare” di suo pugno un episodio della sua propria vita dal titolo: “Come Paz riuscì̀ ad evitare il servizio militare”.
Tratto dal volume: Pippo. Un’antologia psicotropa edito da Mondadori
(Ro.G.)