Il fuoristrada percorre pochi chilometri, fino ad arrivare a contrada “Ciavola Costa d’Inverno”. Due auto, all’improvviso, tagliano la strada al Toyota, costringendo Quaranta a una brusca frenata. Una scarica di lupara si abbatte sull’auto

È il 22 aprile 1999. Siamo in provincia di Agrigento. Quel giorno, Stefano, poco più di 11 anni, accompagna il padre. È felice, anche se l’occasione per la gita è macabra. Il padre, macellaio, era stato reclutato per sgozzare un maiale e si era portato dietro il figlio. La macellazione sarebbe avvenuta nella villetta di Carmelo Cusumano personaggio imparentato con uomini d’onore della mafia agrigentina. La “mattanza” inizia ma il padrone di casa si accorge che manca il pane. Viene incaricato Enzo Quaranta, un giovane di 29 anni che faceva parte della comitiva. Per la commissione, Cusumano, gli da le chiavi del suo Suv, un grosso Toyota. Stefano guarda l’enorme auto e cerca con lo sguardo il consenso del padre. È fatta, Quaranta lo porterà con sé per andare a comprare del pane al villaggio Mosè. Il fuoristrada percorre pochi chilometri, fino ad arrivare a contrada “Ciavola Costa d’Inverno”. Due auto, all’improvviso, tagliano la strada al Toyota, costringendo Quaranta a una brusca frenata. Una scarica di lupara si abbatte sull’auto. Quando i sicari si allontanano, Enzo Quaranta è ancora vivo mentre per Stefano non c’è più niente da fare: è stato colpito alla testa da quella pioggia di fuoco. Stefano viene portato di corsa all’ospedale di Agrigento ma inutilmente. L’obiettivo era certamente Carmelo Cusumano, che si muoveva normalmente utilizzando il Toyota. Sulla pista mafiosa non vi sono dubbi. L’imprenditore è imparentato con uno degli esponenti di spicco della famiglia agrigentina di Cosa Nostra, finito in carcere nel corso dell’operazione “Akragas” dell’anno precedente, finalizzata contro una delle famiglie mafiose più antiche e pericolose di Cosa Nostra. La mafia agrigentina ha da sempre un peso non indifferente nell’organigramma criminale siciliano, come dimostra Giovanni Brusca, che quelle zone le aveva scelte come suo rifugio, in quella tranquilla villetta a pochi chilometri da Agrigento.

La mafia agrigentina, alcuni mesi prima, proprio a Favara, aveva lanciato un sinistro messaggio a Giancarlo Caselli, bruciando il teatro dove il giorno seguente il procuratore avrebbe dovuto tenere una conferenza. Un anno dopo la morte di Stefano, lo Stato ha risposto con l’operazione “Fratellanza”, che ha decimato le due famiglie mafiose in guerra, quella dei Cusumano e quella dei Vetro. Oggi Stefano Pompeo è riconosciuto vittima della mafia dallo Stato ed anche vittima di una società in cui il valore della vita umana, anche quella di un bambino, conta poco o nulla. Stefano Pompeo era nato ad Agrigento il 7 maggio 1987. A Favara, il 22 aprile 1999, è stato vittima innocente della mafia.

Roberto Greco per referencepost.it